Antonio Calderara
Autobiografia
Il 28 ottobre 1903 nasco ad Abbiategrasso, preferisco in Europa.
Mio padre, un civilissimo gentiluomo di campagna, di quelli, voglio dire, che amano la vita cordiale, comoda, non pesante di fatica, di silenziosa meditazione.
Mia madre, gentile, garbata, di sottile sentimento, dedita al marito, ai tre figli, due maschi e una femmina, amministratrice attenta, economa, molto severa educatrice di noi tre.
La fanciullezza è corsa via serena in un ambiente chiaro e sano, ove l‘ordine, la disciplina, la correttezza erano il credo di ogni ora.
La scuola elementare mi ha insegnato il senso del dovere fuori dalla famiglia, il rapporto con gli altri.
La guerra del 1914 ha voluto mio padre soldato, e per essere noi più vicini a lui e per dare a lui la possibilità più facile di vedere noi, ci siamo trasferiti a Milano.
Ricordo che, bambino, disegnavo pupazzi sulla tovaglia sempre di bucato, con grande dispetto di mia madre e con la tolleranza del padre.
Il gusto del disegno, si può dire, è nato con me e mio padre, che lo aveva capito e coltivava la mia passione.
Del 1915 è la mia prima pittura ad olio, La chiesa di Vacciago.
A Vacciago da tre anni con la mia famiglia trascorrevo la vacanza estiva.
Non abitavamo la casa del nonno, che per eredità era stata assegnata allo zio Piero, abitavamo un‘altra casa che mio padre aveva comperato.
Questa casa, tutta aperta sul sottostante lago, un lago verdissimo d‘estate, delimitato dalle Prealpi, l‘isola di San Giulio al centro e sul cielo, saldamente disegnato e luminoso nei suoi bianchi rosati e nei suoi grigi argentei, il massiccio del Monte Rosa. Bisogna dire che Vacciago, frazione di Ameno, è un paese di circa duecento anime, ricco di case padronali datate tra il Sei e il Settecento e deliziato anche da alcune case contadine del Seicento, veramente nobili nella loro architettura povera, spontanea, semplice, armonica.
Nel 1923 a Vacciago, nella sala dell‘albergo Maulini, il professore Ernesto Pestalozza ha inaugurato la mia prima esposizione personale.
Nel 1923 ero iscritto ai corsi di ingegneria al Politecnico di Milano e dal 1923 al 1925 lo studente di ingegneria, anzichè prepararsi agli esami, ha maturato, vincendo la resistenza della madre, la sua decisione di essere pittore invece di ingegnere.
Cessata la qualifica di studente universitario, ho dovuto fare il servizio militare e iscrivermi al Corso Allievi Ufficiali di Roma (1926).
La vita militare è stata per me una tristissima esperienza. La mia sofferenza all‘obbligata vita collettiva, la rinuncia all‘iniziativa personale, l‘insopportabile disciplina, sono certamente le ragioni che mi hanno reso difficile ed amaro quel periodo durato per fortuna solo tre mesi.
Tre mesi di corso e poi nove mesi di ospedale dove una malattia benevolmente ingigantita mi ha condotto per salvaguardarmi da una severa punizione e dove, dimesso per assenza dal corso, sono rimasto fino alla fine della ferma.
Finito il servizio ritornai in famiglia, carico di entusiasmi, di ambizioni, di illusioni e godevo di sapere che non mi aspettava altro che la pittura.
Nel 1927 ebbi nella casa di mio padre una stanza tutta per me e quella stanza fu il mio primo studio, lo studio ove potevo liberamente fare tutte le mie prove, maturare le mie esperienze.
È del 1929 la mia prima partecipazione ad una esposizione collettiva con l‘etichetta dell‘ufficialità. Era l‘esposizione organizzata dalla Famiglia Artistica di Milano e dedicata ai Navigli che dovevano essere coperti.
Quella occasione fu per me importantissima perchè per la prima volta ho visto le mie pitture allineate vicino alle pitture di altri artisti che non conoscevo.
Nel 1929 mio padre, per far fronte alle necessità dell‘azienda di mio fratello, ha avuto una serie di difficoltà finanziarie, ha lasciato il grande appartamento di Milano e si è ritirato con la famiglia nella sua casa di Vacciago.
Io decisi di non seguirlo e rimasi a Milano, dove il padrone dello stabile acconsentì di staccare dal resto dell‘appartamento e di affittarmi la stanza che mio padre mi aveva concesso e che aveva una propria entrata e un servizio.
Solo con la mia pittura, con le mie responsabilità, col mio orgoglio, con la mia ambizione, solo con me stesso, senza amici, senza aiuto, solo con quei pochi soldi che erano i miei risparmi, ho dato vero principio a quella che fu la mia vita di pittore.
La mia affascinante avventura mi ha obbligato per alcuni anni a pesanti difficoltà, a dure rinunce, alla fame, ma, ad onta di tutto questo, io ero felice dentro, ero un uomo libero, tutto teso nell‘impegno di una pittura che, col passare del tempo, anche se non trovava consensi, si andava però chiarendo a me stesso e questo era per me quello che più importava.
Ho una grande forza di volontà, inculcato profondo e chiaro il senso dell‘onestà, precisa la certezza di quello che voglio. Non un passo indietro, dunque, ma un continuo sforzo per andare avanti e andare avanti, per me voleva dire aggiungere alla pittura di ieri l‘esperienza di oggi, a quella di oggi quella di domani.
L‘otto gennaio 1932 incontro la donna che dovrà essere la compagna della mia vita.
La ricordo sottile in un abito nero lungo, ricordo i suoi occhi chiarissimi, il viso piccolo e diafano, ricordo il primo ballo, il primo appuntamento, la prima visita al mio studio e poi le sue visite di ogni giorno, ricordo il suo interesse per la mia pittura - sono le nevicate dipinte alla periferia di Milano -, ricordo la sua sensibilità che le rendeva facile il capire, ricordo la mia emozione quando, per la prima volta poggiando la mano sul ventre colmo, avvertii il muoversi di mia figlia.
Ricordo l‘inizio della vita in comune, la nascita di Gabriella, la nostra felicità. Mio padre e mio fratello capiscono ed accettano la mia nuova condizione.
Lascio Milano e mi trasferisco in un piccolo albergo a Pella. Da Vacciago, alto trecento metri sul lago, si domina Pella più bassa in riva al lago e da Pella si guarda Vacciago, orizzontale di case e di alberi sul cielo.
È del 1934 la mia esposizione a Milano, Galleria Bolaffi.
Nel 1934, per assecondare il desiderio di mia madre, la quale non poteva accettare la mia unione libera, mi sposo e ritorno a Vacciago.
Nel 1935, forte di un contratto che mi lega vantaggiosamente per dieci anni ad un industriale milanese, ritorno con moglie e figlia a Pella, abito l‘ultimo piano della torre medievale e metto studio dove fu l‘"Osteria del Vapore", costruita su piloni nascenti dal lago.
Il contratto mi dà benessere finanziario, ma mi crea il sospetto di non poter dare in quadri nella stessa misura del denaro che ricevo, il mio principio di onestà è turbato, tanto turbato che alla fine dell‘anno riesco a convincere l‘industriale, vero gentiluomo, a liberarmi dall‘impegno.
Lascio Pella e trasloco ad Orta.
Orta è la "capitale" del lago d‘Orta, anche se Omegna industriale le contesta il titolo.
La mia vita in quegli anni corre tranquilla e serena come quella della prima infanzia e della giovinezza.
La bambina cresce bene, la moglie mi è compagna inseparabile, io dipingo e le mie esposizioni ad Orta, a Pallanza, ad Omegna, a Domodossola, mi danno il necessario per vivere.
Sono autodidatta, isolato, interessato soltanto al mio problema, al mio lavoro, devo da solo capire che cos‘è la pittura, gli errori si sommano agli errori, ma per fortuna me ne accorgo e non li ripeto.
Vado avanti sorretto dalla certezza che un giorno mi sarà svelato quel grande mistero che è la pittura.
Per ora quello che mi pare importante è dipingere, è non rifiutare di accettare ed affrontare con serena umiltà i sempre nuovi problemi.
Nel 1936 improvvisamente muore mio padre, assisto con mia madre angosciata, disperata a quella morte che mi porta via col padre l‘amico, il compagno, l‘appoggio morale di cui avevo tanto bisogno.
Si preparano ancora tempi difficili, si profila la guerra, io sono richiamato soldato e, dopo quattro mesi, prima dell‘inizio delle ostilità, per una imperfezione al cuore sono rimandato a casa.
Mi stabilisco a Vacciago, nella casa paterna dove è anche mio fratello che, con attento ed ininterrotto lavoro, è riuscito a superare la crisi del 1929.
Mio fratello, con una generosità riservata, mi ha aiutato ogni qualvolta si è accorto delle mie difficoltà.
Anni di guerra, anni difficili di preoccupazioni, lutti, disagi. Vacciago è piena di sfollati e nella casa della moglie Rosa Menni Giolli vi è anche Raffaello Giolli, reduce dal confino fascista e costretto a Vacciago al domicilio coatto.
Il rapporto con Raffaello Giolli si fa caldo di colloquio, stima, affetto, amicizia. Raffaello Giolli maestro, la consuetudine con lui insegnamento. Io gli debbo molto, la sua vicinanza, la sua critica, il suo consiglio mi hanno aperto alla più vera possibilità del capire.
Nella casa paterna prima e poi in uno studio affittato in una casa vicina, io continuo le mie esperienze.
Nel 1942, assetato dal bisogno di rendere il più possibile preziosa la mia pittura, ne diminuisco la misura fino a brevi spazi di pochi centimetri quadrati.
Il colore si raffina nel tono e afferma di non essere una materia fine a se stessa.
Il risultato però non è solo di superfici levigate, uniformi, è soprattutto conquista di un colore che si decanta in luce.
Il problema inconsapevole del primo periodo diviene ora, dopo tanti anni di esperienza, cosciente realtà ed è nella conquistata coscienza di questa realtà che si concentra tutto il mio interesse. Nel 1943 Raffaello Giolli scrive un testo per una monografia che, intestata al mio nome, verrà stampata nel 1944.
Il 17 maggio del 1944 muore improvvisamente mia figlia. è il vuoto, la disperazione. L‘angoscia del distacco. La vita che spenta nella materia fa di questa una cosa, il funerale, il ritorno a casa, dove rimangono soltanto due nel turbine dello stesso dolore, due che nel non parlarne rispettano l‘uno il dolore dell‘altra.
Sono ore terribili di una vita che chissà per quale forza trova la possibilità di riprendere il suo ritmo fino all‘ordine abituale, un ordine abituale, anche se dentro il vuoto porta alla disperazione.
è nel mio studio che io, riprendendo i pennelli su una pittura incompiuta che era il ritratto di Gabriella, ritrovo la possibilità di un discorso con lei. Ed è in questo particolare stato d‘animo che mia figlia morta trova nell‘altro spazio ancora una realtà concreta, una realtà che si identifica con sua madre.
È così che fino al 1957 mia moglie nelle mie pitture ringiovanisce per essere il ritratto della figlia, la quale fuori dal nostro spazio, fuori dal nostro tempo, continua la sua esistenza ideale, non arrestata agli undici anni che aveva quando è morta.
Nel 1945 con la moglie ritorno a Milano, la nostra esistenza si apre a nuove esperienze.
Nel 1947 alla Galleria della Spiga con un testo di Enrico Somarè e nel 1948 alla Galleria del Camino, due mie importanti esposizioni personali.
Nel 1950 primo infarto al cuore a Milano, due mesi di letto, due mesi di meditazione, di colloquio con la mia pittura senza dipingere.
Nel 1953 muore mio fratello. Da lui mi viene la casa che ora abito, la casa di tre piani della fine del Seicento, impostata su tre ordini di archi sostenuti da colonne.
Nel 1954 incontro le pitture di Mondrian. La pittura di Mondrian, così assoluta nella sua costruzione, così precisa nel suo colore, è per me l‘apertura a più rigorosa meditazione, a capire un altro aspetto della realtà.
1957-1958, il mio impegno è interesse alla luce, alla luce che tutto invade, che tutto distrugge per essere lei sola protagonista.
Sono di questi anni le mie pitture al limite del figurativo, quelle pitture chiarissime, nelle quali ogni rappresentazione si svolge sul piano, voglio dire sul piano nel senso che la terza dimensione prospettica non ha più interesse per me. E se è ancora necessario parlare di terza dimensione, si deve intendere una terza dimensione non riferita ad un orizzonte, ad un punto di vista, di fuga, ma ad una immaginata realtà che trova il suo esistere nelle sovrapposte velature di colore.
Di questo periodo sono anche significativi i disegni a matita, "pitture fatte con l‘aria", come li definisce Agnoldomenico Pica nei due libri ad essi dedicati [1].
Il mio modo di fare pittura, disegno, è arrivato a quel punto limite per il quale andare avanti, o meglio non fermarsi, vuol dire oltre il figurativo.
Anche dentro di me sono maturate nuove convinzioni, nuove determinazioni, nuovi problemi.
Ho capito che se vi è di mia figlia nell‘altro spazio ancora una realtà, essa è soltanto una realtà spirituale, una realtà che si concreta nel suo identificarsi con l‘infinito, con l‘idea che ciascuno di noi ha dell‘infinito.
So che la mia ambizione è più grande della mia possibilità, so anche però che al limite del mio possibile è il vertice più alto che mi è consentito.
Nel 1958 col disegno dedicato a mia madre traccio la mia ultima linea curva.
È del 1959 il mio primo quadro non figurativo, poi ancora un ritorno a sintesi che sono ricordo di paesaggio, ricordo di paesaggio ordinato in linee orizzontali e verticali che si incontrano ortogonalmente.
Nel 1960, caduta la curva, che mi conduceva alla costruzione di un volto, di un occhio, di un seno, di un ventre gravido, mi trovo finalmente maturo per la mia nuova avventura.
Dipingere rettangoli, quadrati, righe, che non ambiscono a essere pittura geometrica, ma che vogliono invece essere rappresentazione della misura umana in uno spazio di luce, è un impegno, una risoluzione che, particolarmente in Italia, offre la più grande incomprensione, non solo da parte dei più, ma anche di una certa critica qualificata.
Le mie nuove aspirazioni mi allontanano dagli amici pittori, i pochi compratori dei miei quadri; le mie nuove pitture sono rifiutate alle esposizioni.
Mi trovo con tutte le porte chiuse. 1960-1962, anni durissimi di umiliazioni e per far fronte al bisogno di ogni giorno mia moglie è costretta a vendere i quadri di Calderara che in passato aveva raccolto per la sua collezione privata.
Anche in questa occasione, la mia forza di volontà, la mia certezza di essere nel vero, o almeno in quel vero che credo sia vero, mi dà la forza di continuare.
Mi è stata di grande sostegno morale la fiducia di mia moglie, la partecipazione di Annamaria, l‘entusiasmo del pittore Ravazzi, l‘interesse di Carlo Belloli e di Almir Mavignier.
È Almir Mavignier che nel 1960 porta due miei piccoli quadri in Germania e sono proprio quei due piccoli quadri che mi aprono la strada a sempre maggiore stima, comprensione da parte dei tedeschi.
Dipingo, dipingo e le mie pitture maturano nel colore luminoso e nella struttura sempre più semplice.
Non più la natura, non più l‘uomo, ma la natura e l‘uomo dimensionati nel bisogno della più assoluta sintesi, portati a quell‘estremo limite di essenzialità, nel quale finisce il ricordo per avere principio l‘idea. Ambizione di una realtà d‘immagine, che non è più la realtà, ma la più alta, la più pura, la più astratta espressione di quella realtà.
In questo ordine il tempo perde il senso della sua misura per annullarsi nello spazio senza limite, nella luce senza sorgenti e l‘orizzontalità e la verticalità, ordinata nella perfezione dell‘angolo retto, si chiarisce statica immagine di un punto in movimento e si definisce nel costruirsi quadrato e rettangolo, misura organizzata di luce nello spazio di luce. [...]
1963, secondo infarto al cuore, due mesi di letto a Vacciago.
Nel 1965 muore mia madre.
Tutta la mia vita è pittura, non un disperdimento, non un altro interesse.
Vorrei dipingere il niente che sia tutto, il silenzio, la luce.Vorrei dipingere l‘infinito.
1966-1968, pitture, esposizioni, viaggi, incontri, amicizie.
1970, terzo infarto al cuore e tre mesi a letto a Sanremo. Non posso dipingere.
È in questo stato di particolare riguardo verso me stesso che ripenso al mio lavoro di molti anni.
Ricordo mentalmente tutte la mie pitture e con soddisfazione posso dire che la mia pittura di oggi è ancora la mia pittura di ieri, posso dirlo nel senso che, nel suo essere, la mia pittura non ha cambiato niente. Essa è conseguente, legata da un filo conduttore che si chiama luce.
La mia pittura ha origine nel mio bisogno di luce, la luce che, inconsapevole della sua importanza, è timida evidenza delle mie prime pitture, la luce che nel tempo si è man mano chiarita a me stesso e a se stessa, fino a diventare l‘unica cosciente e responsabile protagonista della mia pittura.
Nel tempo la maturazione di un pensiero, che, come seme, lentamente, ha germogliato, la mia pittura si è aperta a problemi di sintesi, di rarefazione, di vuoto, di monocromia per giungere fino a quel più niente che si riassume in "vorrei dipingere il niente".
La geometria è identificata nella pura e semplice essenza del numero che, più che la forma, chiarisce il rapporto tra la forma e lo spazio che la determina.
Vorrei che il colore perdesse la sua natura di materia per purificarsi in realtà di luce.
Vorrei essere in ogni momento attivo al margine, al confine di quella misura che è la misura della mia natura finita .
Il problema del niente che è tutto è il vertice di una ambizione certamente più grande della possibilità umana, ma se anche l‘impossibilità di questo raggiungimento è scontata mi pare importante e non inutile essere tutto teso alla considerazione di questo interesse mentale.
È nella aspirazione a mete più grandi di lui che l‘uomo dà ragione e vita alla sua speranza, a quella speranza che è il mezzo per raggiungere il vertice.
Andare avanti sorretti da una grande fede, non disgiunta da un‘altrettanto grande umiltà, se non ci si vuole infrangere contro la realtà che ci costringe alla misura del nostro limite.
Andare oltre il limite, almeno con l‘immaginazione, almeno con la possibilità di credere che nell‘intuizione di un fatto impossibile si può trovare la possibilità di arrivare al vertice della nostra possibilità.
Io credo che è soltanto inseguendo questi impulsi del pensiero e dello spirito, che è soltanto col non arrenderci alle molte difficoltà, col non sederci sulle più o meno comode poltrone di situazioni raggiunte, che noi possiamo dire a noi stessi di aver dato tutto il nostro meglio.
L‘arte è fatta di meglio, del meglio, l‘arte è una delle più alte conquiste dello spirito. L‘arte è il dono di un uomo agli uomini, e se anche non tutti gli uomini capiscono non importa, importa invece che ci sia almeno uno che capisca, anche se questo uno è soltanto quello che dona.
Non è una posizione presuntuosa, è invece umiltà perchè chi dona è quello che ha vissuto tutta la vita nello sforzo di dare forma visibile al pensiero.
Una vita di pittura, una vita di colori, una vita di continua tensione verso il meglio, verso il non essere peggiori, una vita aperta alle più alte aspirazioni, una vita carica di difficoltà, di umiliazioni, di responsabilità morali, una vita vissuta intensamente, viva in ogni suo attimo, forte di molte certezze e di altrettante incertezze, una vita piena di speranza.
È la speranza, luce cosciente della nostra possibilità, il pilastro che sostiene l‘architrave su cui poggia e si dimensiona la somma delle nostre ambizioni, delle nostre illusioni, delle nostre aspirazioni.
è nella speranza di riuscire a dare forma attiva, plastica al nostro pensiero che ha significato la nostra fede, la nostra felicità.
Gli ultimi anni - a cura di Lorella Giudici
1974. L‘Ente provinciale del turismo di Novara gli conferisce la medaglia d‘oro a "testimoniare la mia attività di pittore e il mio amore per il lago d‘Orta"
In questo anno inizia la serie delle Lettere di un convalescente, dove, dopo molto tempo, riappare la diagonale, ritrovata nelle interminabili ore trascorse disteso a letto.
1976. Gran parte dell‘anno lo dedica alla sistemazione della collezione:
"Vacciago è sistemata, la collezione è nella casa degli archi e noi abitiamo la casa che ad essa è di fronte. Anche quest‘anno è stata per noi un‘estate molto pesante: trasloco, messa al muro di 250 opere [...]. Siamo andati a Milano nella speranza di un mese di riposo, invece l‘influenza e il mio cuore assai indebolito ci hanno costretto a giorni di letto, fino a quando siamo riusciti a raggiungere Sanremo, dove il sole, il clima primaverile, il grande terrazzo sul mare ci consente una serena partecipazione con la natura, medicina meravigliosa per trovare le forze perdute..."
1977. La salute è sempre più precaria e lo costringe a lunghi periodi di riposo:
"Dopo gli ultimi disturbi al cuore non mi sono ancora completamente ripreso ed il medico mi ha proibito ogni viaggio. Come va il mio lavoro? ... Dal punto di vista delle soddisfazioni non potrebbe andare meglio, dal punto di vista delle vendite è, come sempre, non facile. È perché sono abituato a non contare sul venduto che non mi importa di essere di moda e che sono pochi quelli che amano l‘essenziale. Tiro avanti caro amico nel mio silenzio e anche nella mia malinconia. Dipingo quel poco che posso, faccio il possibile per portare la mia pittura in un ordine di purezza e di assoluto, poi sarà quel che sarà"
"Vivo come una talpa, chiuso in casa e quando non dipingo (un paio d‘ore di pittura mi demoliscono) me ne sto tranquillamente in poltrona a leggere, a riordinare le mie carte, a riandare mentalmente a tutto quello che ho fatto nel tempo passato"
1978. Una grave polmonite lo costringe a letto e a un riposo assoluto. Pochi mesi prima di morire inizia la serie degli Epigrammi:
"È un alfabeto che non si legge. È puro spirito percepibile in uno spazio dove il silenzio è sovrano, dove la luce è ovattata e diffusa, dove il colore non è mai nota emergente. È eco di ricordi, di storia, di valore non dimenticato [...]. È inventare la mia morte per muovermi idealmente, utopicamente nel mondo di morte che non è morte: scoprirne il significato, quel significato che è principio della mia necessità. È in questo spazio di colloquio senza parole che ho ritrovato la speranza perduta."
Il suo cuore, ormai stanco, cessa di battere il 28 giugno con questa certezza: "Quando sarò alla fine dei miei giorni sarò felice di dire che ho vissuto di pittura."
Note
Usciti nel 1955 e nel 1959 rispettivamente per le Edizioni della Conchiglia di Milano e per le Edizioni del Milione di Milano.
Discorso pronunciato da Calderara in occasione del conferimento della medaglia d‘oro da parte dell‘Ente provinciale del turismo di Novara nel 1974.
Lettera inedita a R. Jochims, 5 maggio 1976, conservata nell‘archivio della Fondazione Calderara.
Lettera inedita a Enore Zaffiri, 27 dicembre 1977, conservata nell‘archivio della Fondazione Calderara.
Lettera inedita a Dadamaino, novembre 1977, conservata nell‘archivio di Dadamaino.
Testo che accompagna l‘edizione serigrafica Druckwert, München 1978.
In Pensieri, Espace Contemporain, Sion 1992.
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