“Ho vissuto in un cortile con 60 bambini e pensavo che Dio mi salvasse da ogni pericolo”. Il cortile era uno dei tanti della Milano popolare, in via Giusti, nel cuore della vecchia città, nei pressi dell‘Arena. Qui Remo Bianchi (in arte Bianco) ha trascorso un’infanzia felice, circondato dall‘affetto dei genitori e della sorella Lyda, di un anno maggiore di lui. Una sola ombra: la morte del fratello gemello, Romolo.
Era nato a Dergano, vicino ad Affori, il 3 giugno del 1922. Il padre, Guido, era “un anarchico perseguitato per le sue idee”, la madre, Giovanna Ripamonti, “donna espressiva, popolare e drammatica”, praticava la cartomanzia.
Nelle ore libere dallo studio Remo disegnava e cercava di rimediare qualche soldo aiutando i negozianti e gli artigiani del quartiere.
Era il 1939 e stava frequentando la scuola serale di disegno a Brera (diretta da Aldo Carpi), quando, una sera, vide per la prima volta Filippo de Pisis. Ai tempi, non era raro che i maestri andassero all‘accademia a guardare i lavori dei giovani studenti ed elargissero loro qualche buon consiglio. Quel giorno era toccato a lui. De Pisis lo aveva notato. Remo aveva solo diciassette anni e per il giovane fu un incontro determinante, la nascita di una lunga amicizia: "de Pisis è stato per me un maestro eccezionale (maestro di vita soprattutto), mi ha orientato verso una cultura artistica ampia, anche se in un certo senso antiaccademica”. Nel suo studio, dove si recava con frequenza, ha conosciuto grandi personaggi dell‘arte, della letteratura e del cinema: Soffici, Montale, Savinio, Carrà, Sironi, De Sica...
Nel 1941 si arruolò in marina come puntatore mitragliere su un cacciatorpediniere. La famiglia (tranne il padre), a causa della guerra, era sfollata a Sassuolo. Nel 1943 la nave venne silurata e, naufrago, fu salvato dagli inglesi e internato a Tunisi. Era il primo contatto con “L’Oriente”, con il mondo musulmano e la sua affascinante cultura, i paesaggi desertici, i mosaici, le ceramiche e gli stucchi che decoravano palazzi e moschee. Si ammalò e venne rimandato in Italia, a Sassuolo.
Nel 1944 rientrò a Milano. La città era provata dai bombardamenti e dalla fame, ma la loro casa era miracolosamente intatta. Viaggiò nell’Italia distrutta dalla guerra, si recò varie volle a Venezia e nel 1946 tornò a Brera. Aveva preso la decisione più importante della sua vita: sarebbe diventato artista.
Il ‘48 fu l‘anno della svolta: tenne le sue prime mostre personali (due: una a giugno e l‘altra ad agosto) negli spazi del Gruppo Esagono e abbandonò le esercitazioni accademiche per dedicarsi alla pittura su vetro e su fogli di plexiglass trasparente, che sovrapposti creavano effetti di profondità e movimento. Erano i primi 3D o quadri tridimensionali che portò avanti, a più riprese, fino agli anni sessanta. Contemporaneamente iniziò a prendere le prime impronte di gesso, quelle che egli stesso amava definire le “tracce dell‘uomo”: pneumatici, tombini, orme... Insomma, quella “documentazione universale” con cui catalogò “tutte le cose venute in contatto” con lui, come scrisse qualche anno dopo nel Manifesto dell‘Arte Improntale (1956). Con il medesimo meccanismo diede vita ai Bassorilievi in gomma (metà degli anni cinquanta), alle Impronte sonore (1961) e alle Impronte viventi (1964).
A ventotto anni trascorso un breve periodo a Cantello, vicino a Milano, dove. ottenuto il permesso. soggiornò nel convalescenziario, locale. Qui, passava le giornate ritraendo vecchi e ammalati, studiando i loro corpi stanchi, sofferenti e assistendo impotente al sopraggiungere della morte sui loro volti.
Nel 1952, con la presentazione di Lucio Fontana. Bianco espose i 3D alla Galleria del Cavallino di Venezia. Creò “3D di plastica, moltiplicabili, con disegni astratti posti su tre piani distinti, montati su telai trasparenti”. Disegnò “anche alcune 3D poste su fondi trattati con colori fluorescenti, o con fondi variabili, che grazie ad una intercapedine studiata appositamente” venivano “riempiti di riso, limatura di ferro, ghiaia. ecc.”.
All‘anno successivo è da far risalire il suo incontro con Virgilio Gianni, l‘industriale milanese che gli divenne subito amico e mecenate. Si conobbero casualmente, a Brugherio, nella serra della clinica in cui de Pisis stava trascorrendo gli ultimi mesi della sua esistenza. Da quel momento, per Remo Bianco, le preoccupazioni economiche finirono.
Grazie a Gianni, nel 1955 poté partire per un lungo soggiorno negli Stati Uniti: “Ho scoperto subito canali estetici molto importanti, Burri per esempio”. Conobbe Klein, Donati, Marcarelli e Pollock. Con quest‘ultimo trovò immediatamente una grande affinità di temperamento, ma si rammaricò di non avere avuto il tempo sufficiente di approfondire quella nuova amicizia. Con sé aveva portato alcuni 3D, li aveva anche esposti nel Village Art Center di New York, ma con scarso successo. Rispetto al l‘espressionismo astratto, al dripping, alla gestualità della pittura americana, la sua era un‘arte “più fredda, più cerebrale”. Dipinse allora tele e carte in cui segni e colori nascevano da colature libere e liberatorie. Cominciò a ritagliare queste immagini suggestive in regolari quadrati per ricomporli in originali mosaici: i Collages. “Qualche volta - ricordava l‘artista - una di queste tessere veniva riproposta e ingrandita creando in grande particolare che appunto si definiva ‘particolarismo’”.
Dopo essersi dedicato ad altri materiali, dopo aver raccolto ogni tipo di oggetto dimenticato e di poco valore per imbustarlo in tanti sacchetti di cellophan (Testimonianze) creando originali “archivi” di ricordi, Bianco, nel 1957, approdò al lavoro che, in assoluto, più lo distinse e gli regalò i maggiori consensi di critica e di pubblico: i Tableaux dorés.
Nel frattempo i viaggi all‘estero si moltiplicavano: nel 1959 era in Egitto (Luxor, Assuan, Gizah), poi a Monaco, Stoccolma, Parigi, nel ‘61 e ‘62 in Iran... Ogni volta ritornò con libri, immagini, ricordi annotati su foglietti o fissati per sempre nella mente.
Instancabile ricercatore e sperimentatore continuò a progettare nuove forme di espressione: dalle sculture gonfiabili (subito abbandonate perché simili alle proposte di Piero Manzoni) alle sculture-suono; dalle sculture odorifere a quelle immateriali (diapositive proiettate su nuvole di vapore); dagli spazi di nebbia sintetica alle sculture instabili (lavatrici nere che agitavano senza sosta oggetti di vario genere).
Del 1962 erano le Opere condizionanti, lampadine capaci di produrre suoni assordanti e bagliori accecanti, da cui elaborò l‘idea dell‘interferenza, progettando appositi occhiali che consentivano di osservare la realtà da diversi punti di vista.
Varie volte si recò a Stoccolma per mettere a punto i suoi studi sul Sephadex. Nei laboratori della Pharmacia di Uppsala aveva portato avanti esperimenti per “comprendere e vedere il fenomeno dell‘infinita trasformazione della materia” e aveva redatto il primo Manifesto dell‘Arte Chimica. Era il 1964, lo stesso anno a Venezia le sue Sculture vive facevano scalpore. Sull‘ondata delle reazioni che le sue modelle provocarono negli spettatori, Bianco, l‘anno successivo, intraprese degli studi sulle malattie mentali (argomento che da sempre lo aveva affascinato), mettendo a punto strutture psicoterapeutiche in grado dì instaurare un clima compensativo-catartico e liberare il “paziente” dai forti Stati emotivi che lo assillavano. Il 1965 fu anche l‘anno del Secondo Manifesto dell‘Arte Chimica, delle “Sovrastrutture” (Nevi, Trafitture, Sculture calde), dei Racconti e delle Ricostruzioni fotografiche. Ancora una volta in largo anticipo sui tempi, Bianco comprese che non c‘era più tempo per dipingere o costruire, così fece documentare da amici fotografi alcune sue performances.
Nel 1968, a Basilea, un altro grande incontro, quello con Mark Tobey.
L‘ultimo ciclo, sviluppato negli anni settanta, lo ha chiamato sadico, mistico elementare, in sintonia con i caldi tempi storici e sociali.
Erano anni di intenso lavoro e per svolgerlo al meglio si divise fra diversi studi, uno dei quali a Parigi.
Nel 1972, dopo aver pensato il nuovo Campanile per la piazza San Marco di Venezia, dopo aver realizzato il ciclo dei Manichini e dei Quadri parlanti, si “appropriò” della scala della Galleria del Naviglio di Milano e ogni gradino divenne una confessione: “Non mi hanno mai preso sul serio, ho bombardato tutti con troppe idee, troppe intuizioni, troppo disordine” e, qualche gradino più su: “Qualcuno purtroppo se n‘è accorto, ha presa queste cose, le ha fatte sue... Così il mio albero ha fatto tanti fiori e dato pochi frutti”.
Erano anni di ripensamento, di valutazione, di bilanci. Anche se i riconoscimenti continuavano ad arrivare, era giunto il momento di sistemare quanto era stato fatto. Più volte Bianco aveva pensato ad un‘autobiografia, più volte si era riproposto di scrivere o registrare la storia della sua vita e, soprattutto, più volte cercò di mettere ordine nella cronologia della sua arte (che, ancora oggi, proprio per la sua incredibile ecletticità, risulta difficile da ricostruire), ma senza mai riuscirci. Agli anni ottanta, precisamente al 1984-85, risale un suo viaggio in India.
Poi, la salute cominciò a vacillare, comparvero i primi sintomi di quell‘inarrestabile malattia che, il 23 febbraio del 1988, lo portò alla tomba. Due anni dopo, il Palazzo Reale di Milano lo ricordava con una bella mostra antologica.
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